Poiché è del tutto insolito che un ambiente rupestre abbia un’apertura così ampia come ingresso è ovvio supporre che il costone roccioso in questo lato sia stato parzialmente demolito per realizzare tale facciata, impedendoci di capire dove fosse e come fosse articolato l’ingresso originario all’ipogeo.
In linea di massima, dobbiamo tenere presente almeno tre fasi di vita nel complesso ipogeo:
- Fase 1: insieme di attività umane che portano alla escavazione e regolarizzazione di una cavità presumibilmente naturale: si tratta della fase di utilizzo primitivo dell’ambiente.
- Fase 2: insieme di attività umane che portano all’ampliamento e all’ulteriore regolarizzazione all’interno della cavità: si tratta dei rimaneggiamenti posteriori alla scoperta del XVI secolo.
- Fase 3: costruzione e aggiunta di elementi architettonici posizionati all’esterno della cavità, che hanno dato al luogo l’aspetto che vediamo ora.
In ogni caso, l’invaso scavato nella roccia, senza dubbio non ha l’aspetto che si trovarono di fronte coloro i quali entrarono nella grotta nel 10 marzo del lontano 1576.
A tale scopo, un aiuto importante proviene da una fonte contemporanea al ritrovamento, il di Franco. Dall’attenta lettura della narrazione si capisce che la grotta di S. Margherita era già nota ed accessibile.
Il rinvenimento del luogo rupestre, avvenuto nel 1576 e l’immediata notorietà che ne derivò, spinse il duca di Andria Fabrizio II Carafa e il vescovo Luca Fieschi, a patrocinare la costruzione di una chiesa con annesso convento. Nel 1577 Luca Fieschi istituì una confraternita laicale di 50 cittadini (25 scelti dal Vescovo e 25 scelti dall’Università – l’attuale consiglio comunale -) incaricata di raccogliere fondi per la costruzione del Santuario. A seguito di contrasti sorti con la confraternita, il duca Fabrizio interessò della questione il suo amico padre Pietro Paolo di Sinesio, abate della Chiesa dei SS. Severino e Sossio di Napoli, il quale ottenne di affidare la laura all’Ordine dei Padri benedettini cassinesi provenienti dalla chiesa dei SS. Severino e Sossio di Napoli che legittimati dalla bolla di Gregorio XIII, il 20 aprile 1581 prendevano possesso del luogo sacro. L’insediamento dei monaci cassinesi, perorato dallo stesso duca Fabrizio II Carafa e favorito dalla crescente devozione all’immagina mariana, coincise con l’avvio di un enorme sforzo progettuale, concernente un edificio articolato su tre livelli, alla cui realizzazione si pose mano con estrema rapidità. La costruzione dovette avere inizio dalla “lama”, e quindi dalla grotta. Furono perciò i benedettini che, completata la prima chiesa intorno all’immagine della Madonna, costruirono la chiesa intermedia, detta della Crocifisione; ma anche la chiesa della Crocifisione si rivelò insufficiente, per il grande concorso di devoti e di pellegrini provenienti anche da paesi fuori Andria.
Si pensò allora di costruire una chiesa più grande a livello strada, l’attuale Basilica, detta del Sacramento. Per questa imponente opera vi fu l’intervento del duca Antonio II Carafa, che nel 1617 chiamò ad Andria l’architetto bergamasco Cosimo Fanzago, che stava lavorando a Napoli sia nella chiesa dei SS. Severino e Sossio, che in alcuni edifici di proprietà dei Carafa.
L’edificio si apriva originariamente sul versante orientale della lama, il cui fronte era notevolmente arretrato rispetto a quello attuale. La lama in questo punto è stata tagliata ed il suo piano di fondo originario è stato rialzato, per permettere un più facile accesso e per creare un vasto piazzale davanti alla chiesa che accogliesse i pellegrini, mentre il riempimento è stato sfruttato per creare una grande cisterna.
La descrizione dell’epoca parte dall’ambiente meridionale, cioè quello, dove si trova l’affresco raffigurante S. Margherita, cosa che fa supporre che l’ingresso agli ambienti ipogei dovesse essere su tale lato, forse in corrispondenza dell’attuale porta meridionale che immette in un ambiente di servizio, oppure sul versante ovest.
Entrando, la prima cosa che veniva notata era l’immagine di Santa Margherita, cosa che fa avvalora che l’ingresso all’epoca doveva aprirsi esattamente di fronte a tale immagine. Altro particolare di rilievo è che vi erano dei sedili scavati nella roccia che seguivano lo sviluppo delle pareti.
L’ambiente nord doveva essere ostruito, forse da una frana, e solo nel 1576, dunque, esso tornò alla luce, almeno nella parte che conservava l’affresco della Vergine. L’ambiente più a sud, costituito dalla navata di S. Margherita, comunicava in origine con la navata centrale dell’affresco della Vergine attraverso un arco: tale dato indica che in questo punto è intervenuto un consistente rimaneggiamento cinquecentesco, che ha rimosso l’originario diaframma di roccia che divideva le due grotte. Sebbene le fonti parlino di due distinte grotte, è ovvio che l’interpretazione corretta di tale informazione è che si trattava di due ambienti comunicanti tra loro, divisi da pilastri sormontati da un arco: in pratica da due campate di un edificio di culto.
Di tali pilastri è rimasta una labile traccia in corrispondenza della colonna che attualmente separa la navata di S. Margherita dalla navata centrale: in alto è visibile un’attività di scalpellatura della roccia.
Il piano di calpestio doveva essere più alto di almeno 120-140 cm.
Passando a esaminare la navata centrale, l’elemento più importante in essa è l’abside.
Il primo dato che risulta evidente è la rotazione dell’orientamento della nicchia absidale di alcuni gradi sull’asse est-ovest: ciò vuol dire che l’asse su cui è orientata la nicchia affrescata con l’immagine della Vergine non coincide con l’asse attuale della cappella ipogea, ma è spostato verso sud, cioè alla destra di chi guarda, tanto che l’immagine sacra non è completamente visibile attraverso la finestrella praticata nella parete dietro l’altare. Ciò coincide con quanto è possibile osservare nell’abside di S. Margherita: entrambe le absidi sono quindi orientate in maniera coerente con la parete perimetrale sud dell’ambiente, quella con l’affresco di S. Nicola.
La navata sud aveva le dimensioni attuali, sia in larghezza sia in altezza; la parete meridionale aveva un accentuato orientamento obliquo rispetto all’attuale asse della cappella; la parete di fondo doveva essere più stretta rispetto ad ora e più avanzata, in linea con l’abside di S. Margherita. L’abside di S. Margherita era più ampia di come noi la vediamo, poiché essa è stata ritagliata in funzione dell’affresco; al di sotto vi era un altare a blocco ricavato nella roccia.
La navata sud era separata dalla centrale da un diaframma di roccia o da due grossi pilastri sormontati da un arco; la navata centrale aveva un abside abbastanza ampia (2m per 1,80 di altezza), che accoglieva al suo interno un altare ricavato nella roccia e addossato alla parte curva dell’abside; a sinistra si apriva una piccola nicchia in funzione liturgica.
L’ambiente era completato da sedili addossati alle pareti perimetrali e da anelli per la sospensione di lampade al soffitto.
Nel XVI secolo gran parte della cavità non era più agibile, forse perché ostruita da crolli: solo l’ala sud, quella appunto nota come chiesa di S. Margherita, era accessibile dalla lama, ma senza dubbio non era adibita né al culto né a funzioni funerarie, quanto piuttosto a incursioni di curiosi o malintenzionati, nel corso di una di quelle avvenne il miracoloso ritrovamento del 1576.
La regolarizzazione con l’attuale pianta a ventaglio molto accentuata va probabilmente attribuita a un momento dopo la scoperta: in questa fase furono sfondate le pareti di fondo, fu aperta la navata laterale nord, raccordandola all’ambiente laterale annesso e poi al resto dell’edificio; fu asportato il diaframma di roccia che costituiva la chiusura del complesso sul versante ovest, sostituendola con l’attuale facciata; furono asportati i sostegni o i setti murari originali in roccia sostituendoli con i pilastri e le colonne attuali per supportare la costruzione di una cappella sovrastante la grotta, dedicata al crocifisso e affrescata con Scene della Passione, Sibille e Profeti; fu regolarizzato il soffitto, rialzandolo in alcuni punti; furono asportati i sedili correnti lungo le pareti. Nella grotta ancora leggibile è l’articolazione dello spazio in due celle, in una delle quali accanto all’affresco di S. Margherita appare S. Nicola, entrambi affiancati da una serie di scene della loro vita.
L’affresco, rinvenuto nel 1574, è databile al XIII sec. Si tratta di un dipinto di influenza bizantina. All’affresco, che raffigura la Madonna col bambino, furono attribuite facoltà miracolose e ciò diede impulso alla frequentazione del luogo sul quale si è poi costruito tutto il complesso della basilica.
La Madonna indossa un maphorion amaranto su una tunica dello stesso colore, di cui sono visibili i polsi impreziositi da una doppia fascia di perline. Il Bambino, in posizione rigidamente frontale indossa un himation bianco sopra una tunica rossa che riprende lo stesso motivo a fiori delle vesti della Vergine. Come di consueto benedice alla greca con la mano destra mentre con la sinistra regge il libro.
Il Trono dalla caratteristica forma a lira, si presenta particolarmente sontuoso: ha un’ampia spalliera e nel dossale un reticolo regolare, romboidale a sinistra e quadrettato a destra, con fiori quadripetali stilizzati. Una lunga stoffa a fasce alternate rosse e nere scende sotto il tradizionale cuscino. In basso a destra non visibile a causa dell’inclinazione dell’immagine, la piccola figura della committente dell’affresco, una donna con una lunga tunica rossa e un copricapo simile a un pannolino da testa con sottili strisce scure, con un lungo cero tra le mani, che volle farsi così ricordare. Nell’impianto generale, la figura della Madonna di Andria rimanda a modelli più colti, come dimostra il caratteristico modo di raccogliere le pieghe della vesta sotto il ginocchio.
Sul finire del 1500 (e probabilmente si tratta del primissimo intervento architettonico subito dopo la scoperta del 1576) fu realizzata la facciata monumentale della chiesa rupestre.
Nel 1799, Andria viene saccheggiata e incendiata dai soldati francesi, i quali non risparmiarono neppure il Santuario.
Il 1815, come si sa, ritornarono i Borbone a Napoli. La Chiesa fu affidata temporaneamente al clero secolare; fu il Vescovo mons. Giuseppe Cosenza che volle ripristinare il culto della Vergine in S. Maria dei Miracoli, invitando il 1837 gli Agostiniani calzati a sistemarsi nel vecchio convento accanto al Santuario.
Essendo, poi, Andria scampata al pericolo del colera del 1855, il Vescovo ottenne dal Reverentissimo Capitolo di S. Pietro in Vaticano di incoronare la Madonna il 26 aprile 1857. Per l’occasione Mons. Longobardi ordinò due corone d’oro con nove pietre preziose e ottenne da re Ferdinando II una rosa d’oro “per fregiare il petto di Maria”.
Tra gli uomini illustri devoti alla Madonna, grande risonanza ebbero il re di Napoli Ferdinando II di Borbone e la sua famiglia. Verso l’inizio della seconda metà dell’800 il re si trovò a dover affrontare un periodo difficile e instabile e numerosi tentativi di detronizzazione da parte di anarchici. Egli stesso fu oggetto di un attentato nel 1859 ed evitò la morte solo per puro caso. Fu questo probabilmente il motivo che lo spinse a compiere visite ufficiali in diverse città, tra cui Andria. L’11 gennaio 1859 Ferdinando II di Borbone ritornava ad Andria per la terza volta.
Mons. Longobardi celebrò una messa solenne in Cattedrale; dopo si formò una processione fino al Santuario. Il re era accompagnato dalla consorte Maria Teresa d’Austria e dai figli. Fu in quella occasione che il re promise di rendere più bella la laura; promessa realizzata solo nel 1886 dal figlio Francesco, deposto re di Napoli, con la costruzione del bel tempietto policromo.
Con la proclamazione del Regno d’Italia furono soppressi definitivamente “gli Ordini” e le Corporazioni religiose e furono confiscati gli edifici e devoluti ai Comuni per uso di pubblica utilità.
E cosi gli Agostiniani furono costretti a lasciare il monastero, che passerà all’Amministrazione provinciale per divenire Colonia agricola. Il Santuario, invece, passò alla Curia vescovile, affidato dal vescovo mons. Federico Maria Galdi al canonico don Stefano Porro. Per insistenza delle autorità religiose e civili andriesi, nel 1889 furono richiamati gli Agostiniani, per ravvivare il culto, mai spento, della Vergine, dopo essere stato costruito il piccolo convento a poca distanza dal Santuario, sul lato destro, con il titolo di “Villa S. Monica”. Fu durante quest’ultimo ritorno che gli Agostiniani, in occasione del cinquantenario dell’incoronazione della Madonna dei Miracoli, fecero propria la proposta del conte Onofrio Jannuzzi e tramite il vescovo mons. Giuseppe Staiti, ottenne dal Papa Pio X l’elevazione del Santuario a Basilica; riconoscimento avvenuto il 1907.
Per concludere questo nostro itinerario attraverso la storia, ricordiamo la grande devozione del Vescovo mons. Giuseppe Lanave, che organizzò insieme con i padri agostiniani le celebrazioni del IV centenario della scoperta della Sacra Icona della Vergine, che cadeva il 10 marzo 1576.
A testimonianza, poi, dello stretto legame tra la Diocesi di Andria e il Santuario di S. Maria dei Miracoli, ricordiamo che espressero il desiderio di essere sepolti nella Chiesa-laura i Vescovi mons. Galdi, mons. Merra, mons. Longobardi, mons. Jannuzzi, e, per ultimo, mons. Lanave.
Oggi la facciata prospiciente il cortile e l’ingresso appaiono molto diversi dalla descrizione del di Franco per aver subito modifiche molto rilevanti, soprattutto nella parte centrale, dove l’antico portale tardo cinquecentesco è stato smontato e solo parzialmente riutilizzato a seguito dell’erezione, nel 1871, della cappella di San Giuseppe. Ne resta solo il timpano, inquadrante un tondo a rilievo che raffigura la Madonna con Bambino.